Diego Angeli

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Diego Angeli

Diego Angeli (1869 – 1937), giornalista, scrittore e critico d'arte italiano.

Le chiese di Roma[modifica]

  • [Basilica di Sant'Agnese fuori le mura] [...] nel 1856 fu riparata una ultima volta da Pio IX (Mastai Ferretti) dopo che essendosi recato con tutta la sua corte a visitare il vicino convento, il pavimento della sala dove si trovava sprofondò improvvisamente, senza che nessuno avesse a subire danno di sorta. Appena varcata la porta sulla via Nomentana, a destra del cortile, vi è una memoria di questo avvenimento che fu ritenuto miracoloso: un affresco del pittore Tojetti[1], che riproduce la scena della disgrazia. (pp. 9-10)
  • Il piano della chiesa [di Sant'Agnese fuori le mura] era originariamente costruito sul suolo del cimitero e rimaneva più basso del livello stradale, ragione per cui essendo il luogo assai umido, nel restauro del 620 vi si aggiunsero i matronei[2], come già si era fatto verso la stessa epoca e per le medesime ragioni nella chiesa di S. Lorenzo extra muros. (p. 11)
  • [Chiesa di Sant'Agnese in Agone] Fu costruita sulle rovine del Circo Agonale, nel luogo stesso ove la martire fu esposta. È noto, infatti, come dopo aver tentato di decapitarla due volte inutilmente, fu condannata a essere lasciata nuda in un pubblico lupanare e che allora, per miracolo, i capelli biondi della giovinetta la ricoprirono tutta di un aureo manto infrangibile. (p. 15)

Roma[modifica]

Dalle origini al Regno di Costantino[modifica]

  • [Teatro di Marcello] Fu poco distante da questi portici [di Ottavio e di Ottavia] che Marcello costruì il suo teatro. Abbiamo veduto come già Pompeo iniziasse la costruzione dei teatri in muratura e come Augusto ne seguisse l'esempio rifacendo il Circo Massimo fino allora di legno, Marcello sorpassò l'uno e l'altro in magnificenza e il suo teatro rimane anche oggi fra le più grandiose architetture dell'antichità. Decorato da due ordini d'arcate adorne di mezze colonne doriche e ioniche, ricche di statue, di bassorilievi e di fontane, questo teatro, che poteva contenere oltre ventimila spettatori, fu tra i più sontuosi ornamenti della nuova Roma. E tale rimase fino all'XI secolo quando i Pierleoni lo trasformarono in fortezza. D'allora la vecchia costruzione augustea fu circondata da abitazioni private, e divenne il nucleo di quella fosca Roma medioevale che sembra addensarsi alle falde del Campidoglio, fra le chiese papali dell'Aventino e le oscure porte del ghetto. (pp. 52-53)
  • [L'anfiteatro di Flavio Vespasiano o Colosseo] Centinaia di statue, di gruppi, di bassorilievi e d'iscrizioni dovevano decorare questo sontuoso edificio che conteneva non meno di 87000 spettatori e la cui inaugurazione – sotto Tito – fu solennizzata con cento giorni di feste. Bisogna salire sull'ultima serie di gradinate e di là guardare l'interno del circo in uno di quei crepuscoli romani che sembra debbano versare oro e porpora sulla terra, per ricostruire la scena di quell'edificio sontuoso, come doveva essere tutto splendente di marmi e bronzi dorati, tutto fremente di popolo, fra le urla delle belve e gl'incitamenti dei combattenti, nello scintillìo dell'arena gialla che ne ricopriva il suolo e dei braceri che ardevano incensi in onore delle divinità, sotto le grandi alternative di ombra e di luce lasciate dal velario, in una discordante armonia di colori, di suoni, di frastuoni, di luci, di profumi, di sentori e di grida, quasi in una suprema apoteosi di forza sotto la gloria del sole che lo inondava dei suoi raggi più luminosi. Poi all'uscita, quando gli ultimi servi dell'arena trascinavano con gli uncini i corpi degli uccisi, tutta quella folla si riversava tumultuando e discutendo dentro il vicino Foro o nelle viuzze che circondavano l'edificio colossale, mentre l'imperatore accompagnato dalla sua scorta risaliva nei suoi palazzi del Palatino a traverso il criptoportico o galleria sotterranea che li riuniva all'anfiteatro di modo che potesse accedervi senza mostrarsi sulla pubblica via. (Parte prima, pp. 74-76)
  • E poco dissimile da quelle di Caracalla dovevano essere le terme di Diocleziano, della cui estensione possiamo farci un'idea, pensando che la chiesa di San Bernardo e il corrispondente edificio rotondo di Via Viminale, erano due dei quattro calidaria che segnavano gli angoli estremi del recinto. Anch'esse ebbero le loro aule – la chiesa di santa Maria degli Angeli con le 4 colonne di granito ancora al loro posto primitivo è una di quelle –, i loro porticati, i loro edifici accessorii. Quasi per indicare il supremo sforzo della grandezza di Roma, l'imperatore Massimino che le costruì l'anno 302 in onore di Diocleziano suo predecessore, volle che fossero le più vaste di quante ne erano state fatte fino allora. E come per significare anche maggiormente la potenzialità di Roma, esse furono aperte solo tre anni più tardi, tanto fu l'impiego di schiavi e la profusione di denaro nell'opera magnifica che doveva misurare un circuito di 2000 metri e poteva contenere oltre 3000 bagnanti! Oramai la grandezza e il fasto erano l'unica visione e l'unico sogno degli imperatori romani, si direbbe quasi che nella suprema espansione alla loro potenza, sul limite ultimo della grandezza umana, essi volessero lasciare ai futuri abitanti della città, come la testimonianza indistruttibile di quello che era stato l'impero di Roma. (Parte prima, p. 120)
  • L'anno 367 dell 'Era Volgare – 54 anni dopo, cioè, dal giorno in cui Costantino il grande aveva riconosciuto a Milano la religione cristiana come religione ufficiale – un Vezio Agorio Pretestato, prefetto della città, edificava sotto le falde del Campidoglio un tempio ai dodici Dei protettori di Roma (Dii consentes). L'edificio rimane ancora, fra le rovine del Foro, con le sue magre colonne e la sua struttura meschina, pietosa reliquia di una fede moribonda, ultimo appello disperato di un innamorato di Roma alla negletta religione dei padri. (Parte prima, p. 133)

Da Costantino al Rinascimento[modifica]

  • Ma di tutte le leggende [sulle origini delle chiese di Roma] la più poetica e la più gentile è senza dubbio quella che si riferisce all'origine di Santa Maria Maggiore.
    Il Libro Pontificale, nella vita di papa Liberio narra che la notte del 4 agosto, dell'anno 352, un certo patrizio di nome Giovanni sognò di aver veduto cadere la neve in un luogo dell'Esquilino accanto al Macellum Liviae. Essendosi recato dal papa Liberio e avendogli narrato il suo sogno, questi ne rimase turbatissimo, perché la stessa notte aveva sognato il medesimo prodigio. Allora senza porre tempo in mezzo, il papa ordinò una solenne processione e col patrizio Giovanni, seguito da una turba di monaci e di prelati, si recò giù per la via Merulana[3] fin sul luogo indicato dalle visioni, che in fatti trovò tutto biancheggiante di neve. Con il suo stesso pastorale tracciò in quella neve il piano della nuova basilica, che dal suo nome venne detta Liberiana e che crebbe nei secoli in grande magnificenza. (Parte seconda, pp. 32-33)
  • Di quante basiliche si hanno in Roma, quella di Santa Maria Maggiore conserva più di tutte il suo aspetto primitivo, la trabeazione diritta e adorna di mosaici. Così come la vediamo oggi – meno il baldacchino che è opera del secolo XVIII – è ancora quale la rifece dalle fondamenta il pontefice Sisto IV nel 434 e i mosaici che ne decorano le pareti possono essere considerati fra i più importanti per la storia dell'arte cristiana, di quanti se ne conservino nelle chiese romane. (Parte seconda, p. 33)
  • Allievo forse dei Cosmati[4], Pietro Cavallini seppe infondere alle sue figure quel profondo sentimento classico che si ritrova nelle statue dei maestri marmorari, e conservò loro quella nobiltà di portamento e quella eleganza di drappeggi quale poteva solo derivare da chi si trovava in contatto continuo con l'antica bellezza. Così sul finire del XIII secolo egli arrivava allo stesso punto in cui era arrivato Giotto, e infondeva all'arte della pittura una vita nuova, che pur essendo personalissima si riallacciava ancora alle tradizioni romane. (Parte seconda, p. 166)

Roma barocca e moderna[modifica]

  • Se bene il Bernini signoreggi tutta la sua epoca con la tirannia del genio, pure due grandi artisti fiorirono accanto a lui non certo indegni di stargli di fronte: l'architetto Carlo Rainaldi e lo scultore Alessandro Algardi. [...]. Il Rainaldi, [...], rimane compiutamente nei limiti dell'estetica berniniana e ci dà una serie di opere che sono – con quelle del maestro – fra le più belle e degne di Roma. L'opera di questo architetto è assai numerosa. Per il papa regnante costruì il grande palazzo della sua famiglia al Circo Agonale[5] e per i discendenti di Paolo V disegnò nel loro palazzo romano il piccolo giardino cui fa da limite la grande muraglia adorna di fontane con numerose statue mitologiche piene di movimento e di grazia. In esse – e specialmente in quella centrale che rappresenta il bagno di Venere – il Rainaldi sa sfruttare mirabilmente il triplice tema dell'architettura rustica, dei fiori e delle erbe che adornano il giardino e dell'acqua che zampilla nei bacini. Poco nota – perché fuori della vista del pubblico – questa fontana è però una delle più fresche manifestazioni dell'arte barocca. (Parte quarta, pp. 86-87)
  • In quanto poi al candore delle pareti [della rinnovata basilica di San Giovanni in Laterano] bisogna riflettere che quello fu un canone costante del Borromino[6] e tale lo troviamo nella chiesa di San Carlino[7], come nell'Oratorio dei Filippini, nella cappella di Propaganda Fide come in Santa Agnese al Circo Agonale che sarebbe rimasta anch'essa bianchissima se i decoratori chiamati a compierla dopo la sua morte non vi avessero aggiunto quelle dorature e quelle colonne di Cottanello[8] che non erano certo nel suo disegno. Perché il bianco delle pareti e delle cupole fu così caratteristico nell'opera sua, che tutto il settecento ne sarà suggestionato, come suggerisce con molta acutezza Antonio Muñoz, col quale divido il piacere di essere stati fra i primi a proclamare la grandezza del Borromino quando imperversava la così detta «religione della Bellezza» per la quale ogni forma d'arte moriva con la nascita di Raffaello. (Parte quarta, pp. 119-120)

Citazioni su Diego Angeli[modifica]

  • Diego Angeli possiede veramente l'intuizione appassionata del paesaggio: forse, perché egli stesso è pittore. In una copiosa serie di piccole «impressioni», gelosamente sottratta agli sguardi indiscreti, l'Angeli ha fermato i ricordi delle sue peregrinazioni attraverso l'Agro romano e la Sabina : ora è una pianura con qualche macchia d'alberi velati dalle nebbie del mattino; ora, una lontana visione di colli illuminati dal tramonto; ora, il prorompere del meriggio in una selva; ora, il fasto cadente d'una villa abbandonata; ora, una minaccia di temporale su una campagna squallida infinita... (Luigi Federzoni)


Note[modifica]

  1. Domenico Tojetti (1807 – 1892), pittore italiano naturalizzato statunitense.
  2. Cfr. voce su Wikipedia.
  3. Strada che unisce le basiliche di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore.
  4. Famiglia di marmorari romani appartenuti a quattro diverse generazioni vissute tra il XII e il XIII secolo.
  5. Palazzo Pamphilj in piazza Navona.
  6. Leggi Borromini.
  7. San Carlo alle Quattro Fontane, chiamata popolarmente San Carlino per le esigue dimensioni.
  8. Marmo rosso di Cottanello.

Bibliografia[modifica]

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